IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   In merito al reclamo avverso l'applicazione del  regime  detentivo,
 di cui all'art. 41-bis, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n.
 354,  e  successive  modificazioni, presentato dal condannato Tripepi
 Diego, nato il  12  febbraio  1958,  a  Seminara  (Reggio  Calabria),
 domiciliato  in  Gerenzano  (Varese),  via Manzoni n. 24, attualmente
 ristretto presso la sezione a maggior indice di vigilanza cautelativa
 della casa circondariale di Ascoli Piceno, in espiazione  della  pena
 detentiva  di  anni  sei e mesi otto di reclusione, siccome comminata
 dalla sentenza pronunziata in  data  18  giugno  1987  dalla  settima
 sezione penale del tribunale di Milano, in relazione a fattispecie di
 concorso in tentativo di estorsione aggravata (f.p.: 8 luglio 1995);
    A scioglimento della riserva espressa nell'odierna udienza;
    Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale;
    Sentiti  il P. G. ed il difensore di ufficio dell'interessato, che
 concludevano come in atti, osserva in
                            FATTO E DIRITTO
    Arrestato  in  data  7  febbraio  1991,  Tripepi   Diego,   meglio
 qualificato  in epigrafe, gia' condannato alla pena detentiva di anni
 sei e mesi otto di reclusione, comminate in relazione  a  fattispecie
 di  concorso  in  tentativo  di  estorsione  aggravata, dalla settima
 sezione  penale  del  tribunale  di Milano con sentenza pubblicata in
 data  18  giugno  1987  (v.  estratto  della   cartella   biografica,
 contenente  la  posizione  giuridica, in atti), usufruiva, in data 13
 maggio 1992, di una riduzione di pena per liberazione  anticipata  di
 giorni  novanta,  pari  a  due  semestri,  (dal  7 febbraio 1991 al 7
 febbraio 1992) utilmente espiati, concessa in data 13 maggio 1992 dal
 tribunale di sorveglianza  di  Milano  (v.  estratto  della  cartella
 biografica,  contenente  la posizione giuridica, in atti). In data 20
 luglio 1992 il Ministro guardasigilli emanava apposito  decreto,  con
 cui,  alla stregua della disciplina introdotta dall'art. 19 del d.l.
 8 giugno 1992, n. 306,  e  successivamente  convertito  con  legge  7
 agosto  1992, n. 356, applicava al prefato Tripepi il particolare re-
 gime restrittivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis  dell'o.p.,
 interpolato  dalla  surrichiamata  normativa  nell'ambito  del corpus
 dell'originaria legge di riforma dell'ordinamento  penitenziario  (v.
 in  atti).  Assegnato  alla  sezione  a  maggior  indice di vigilanza
 cautelativa della casa circondariale in Ascoli Piceno, il Tripepi  si
 vedeva   notificare,   in   data   21  luglio  1992,  apposito  atto,
 sottoscritto dal direttore del predetto istituto di pena,  contenente
 le  prescrizioni  consustanzianti il regime detentivo di cui all'art.
 41-bis, secondo comma, dell'o.p. (v. in atti). In  data  18  dicembre
 1992 il detenuto sottoscriveva atto di reclamo avverso l'applicazione
 del  regime  detentivo  predetto: tale doglianza perveniva in data 21
 dicembre  1992  presso  l'intestato  tribunale  di  sorveglianza.  Il
 presidente  di questo collegio provvedeva a fissare l'odierna udienza
 per  la  discussione,  con  le  forme  previste  dall'art.     14-ter
 dell'o.p.,   sul   reclamo   presentato   dal   Tripepi:   in   esito
 all'esposizione compiuta dal giudice  relatore,  p.  g.  e  difensore
 d'ufficio  del  detenuto  concludevano  come  da separato verbale. Il
 tribunale si riservava.
   Sciogliendo la summenzionata riserva, opina questo collegio che  la
 questione  agitata dal Tripepi non possa, allo stato, essere definita
 nel merito, in quanto appare  pregiudiziale  sollevare  eccezione  di
 illegittimita'   costituzionale   del   disposto  del  secondo  comma
 dell'art. 41-bis della legge 26 luglio 1975,  n.  354,  e  successive
 modificazioni.  Tale normativa risulta essere introdotta dall'art. 19
 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con  modificazioni  dalla
 legge  7  agosto  1992,  n.  356,  e,  testualmente,  recita: "Quando
 ricorrano gravi motivi di ordine e di  sicurezza  pubblica,  anche  a
 richiesta   del  Ministro  dell'interno,  il  Ministro  di  grazia  e
 giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte,
 nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti  di  cui  al  primo
 comma  dell'art. 4- bis, l'applicazione delle regole di trattamento e
 degli istituti previsti dalla presente legge  che  possano  porsi  in
 concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza". Orbene,
 il  peculiare  regime  detentivo,  cui  da  luogo  l'applicazione del
 disposto normativo or ora richiamato,  modellato  sull'archetipo  del
 regime  cd. di "massima sicurezza", di cui all'abrogato art. 90 della
 legge 26 luglio 1975,  n.  354,  risulta  essere  stato  imposto  dal
 detenuto  Tripepi  Diego da apposito decreto del Ministro di grazia e
 giustizia, reso in data 20 luglio  1992  (v.  in  atti).  Il  Tripepi
 reclama   avverso   l'applicazione   di   tale   regime   carcerario,
 contraddistinto  da  modalita'  esecutive  improntate  a  particolare
 afflizione:    preliminarmente  alla disamina della questione agitata
 dal condannato si pone la risoluzione di problemi di giurisdizione  e
 di competenza.
    1)  La  giurisdizione:  eccepisce l'amministrazione penitenziaria,
 nell'ambito di apposita memoria inviata  all'intestato  tribunale  di
 sorveglianza  (fono  riservato  n. 50412/43638/434466, in atti), che,
 stante  l'assenza  di  apposita  previsione  legislativa,  la   quale
 introduca,  nei  confronti dell'atto ministeriale di applicazione del
 regime detentivo di cui all'art. 41-bis, secondo comma, dell'o.p., un
 momento di controllo giurisdizionale affidato  alla  magistratura  di
 sorveglianza  (cosi'  come,  viceversa,  succede  per  il  regime  di
 sorveglianza particolare, disciplinato dagli  artt.  14-bis  e  segg.
 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modifiche), si e' in
 presenza  di  un vero e proprio difetto di giurisdizione dell'a.g.o.,
 nella fattispecie della magistratura di sorveglianza, e  che  l'unico
 ambito di tutela, riservato al detenuto colpito dall'applicazione del
 surrichiamato  regime  detentivo,  e'  costituito dalla giurisdizione
 dell'autorita' giudiziaria  amministrativa  (t.a.r.  e  Consiglio  di
 Stato).  Orbene,  ritiene  questo  collegio  che  la  tesi  sostenuta
 dall'amministrazione penitenziaria nei termini or  ora  esposti,  non
 possa  trovare accoglimento. Si rammenti, a tal proposito, che, nella
 vigenza dell'art. 90 dell'originaria legge 26 luglio 1975, n. 354, il
 quale disciplinava analogo potere ministeriale di  sospensione  delle
 regole    di   trattamento   rieducativo   e,   piu'   genericamente,
 penitenziario,  sul  quale  appare,  peraltro,  ricalcata   l'attuale
 potesta'  ministeriale,  l'a.g.a.  si  era  gia'  espressa  nel senso
 dell'assenza di proprio potere giurisdizionale a decidere  i  reclami
 proposti dai detenuti avverso gli atti amministrativi di applicazione
 del  regime  detentivo di massima sicurezza (v. t.a.r. Lazio, sezione
 prima, sentenza  13  settembre  1984,  n.  771,  pres.  Anelli,  est.
 Ferrari,  Rivellini  ed altri - avv. Baccioli - c. Ministero grazia e
 giustizia - avv. dello Stato Siconolfi -, in Foro it., 1986, III,  c.
 87  e  segg.).  Pienamente condivisibili appaiono le motivazioni gia'
 espresse dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, secondo
 cui " .. agli effetti di attuare  il  riparto  di  giurisdizione  fra
 giudice  ordinario e giudice amministrativo, cio' che conta non e' la
 qualificazione giuridica  che  l'istante  conferisce  alla  posizione
 soggettiva  di cui chiede la tutela, ma la reale consistenza di detta
 posizione, cosi' come risulta disciplinata dalle fonti di  normazione
 ..".
    Orbene,    il   decreto   ministeriale   con   cui   si   provvede
 all'applicazione  del  regime  detentivo  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art.  41-bis  dell'o.p.  appronta  particolari  prescrizioni, le
 quali  consistono  nella  sospensione  di  ben   determinate   regole
 trattamentali  (esclusione  dalla  partecipazione alle commissioni di
 detenuti per il controllo del vitto e per le attivita'  ricreative  e
 sportive,  limitazione  del  periodo  della  giornata  da trascorrere
 all'aria, limitazione dei  generi  ricevibili  dall'esterno  mediante
 pacchi,  sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo del
 direttore dell'istituto di pena, ecc.): tali  restrizioni  coincidono
 in  maniera  pressoche'  totale con quelle, a suo tempo, disposte dal
 Ministro di grazia e giustizia in applicazione del regime predisposto
 dall'art. 90 della legge 26  luglio  1975,  n.  354  (successivamente
 abrogato  dalla  legge  10  ottobre  1986,  n. 663) (si vedano, a tal
 proposito, gli allegati alla nota documenti per una riflessione sugli
 istituti  di "massima sicurezza", redatta da G. La Grega e pubblicata
 in Foro it., 1983, II, c. 473 e segg.).  Orbene,  in  relazione  alle
 limitazioni imposte in virtu' della disciplina di cui al prefato art.
 90 della legge 26 luglio 1975, n. 354 l'a.g.a. aveva, nella perspicua
 pronunzia sopra richiamata, individuato l'incidenza, in via immediata
 e  diretta,  del provvedimento amministrativo di applicazione del re-
 gime della "massima sicurezza" su  situazioni  giuridiche  soggettive
 qualificabili come diritti di liberta' costituzionalmente tutelati. I
 detenuti,  cioe',  sono titolari di situazioni giuridiche soggettive,
 garantite da appositi parametri costituzionali quali il secondo comma
 dell'art. 13 della Costituzione ed il terzo comma dell'art. 27  della
 Costituzione,  le  quali appaiono, in virtu' della loro inerenza alla
 persona umana e della sussistenza di apposita tutela,  anzitutto  nei
 confronti  della pubblica amministrazione, qualificabili come diritti
 soggettivi, non degradabili ad interessi legittimi (v. t.a.r.  Lazio,
 sentenza 13 settembre 1984, n. 771, gia' citata). In relazione a tali
 situazioni   giuridiche   soggettive   appaiono   possibili  le  sole
 restrizioni adottabili nelle forme e con il rispetto  delle  garanzie
 volute   dalla   legge;   mai,   comunque,  appare  ipotizzabile  una
 degradazione delle  stesse  al  rango  di  interessi  legittimi,  non
 disponendo   la   p.a.   di   poteri  ablatori  nei  confronti  delle
 surrichiamate  posizioni  giuridiche.  Alla  stregua  delle   prefate
 considerazioni,   il   t.a.r.   Lazio   giungeva   alla   conseguente
 conclusione, senz'ombra di dubbio condivisibile, circa  l'assenza  di
 giurisdizione  della  a.g.a.,  nella  fattispecie  d'organo tribunale
 amministrativo regionale  (giudice  degli  interessi  legittimi),  in
 relazione  alla  denunziata  violazione,  da  parte  della  p.a.,  di
 situazioni giuridiche soggettive quali quelle, la cui lesione  veniva
 lamentata   dai   ricorrenti   detenuti;  addirittura,  si  affermava
 espressamente,  nella   surrichiamata   pronunzia,   una   sorta   di
 giurisdizione esclusiva della magistratura di sorveglianza a decidere
 questioni  analoghe  ovvero identiche a quella agitata dai ricorrenti
 (v. t.a.r. Lazio, sentenza 13 settembre 1984, gia' citata,  al  punto
 n.  3). Quanto precede giustifica la conclusione circa l'infondatezza
 dell'eccezione   di   difetto   di   giurisdizione,   sollevata   dal
 dipartimento  dell'amministrazione  penitenziaria nella memoria sopra
 menzionata:  altrimenti  opinando,  sulla  base  del   mero   rilievo
 dell'assenza di esplicita previsione legislativa circa l'attribuzione
 alla  magistratura  di  sorveglianza  del  potere  di  risoluzione di
 questioni inerenti  al  reclamo  avverso  l'applicazione  del  regime
 detentivo,  di  cui  al  secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., si
 giungerebbe,   anche   alla   stegua   del    cennato    orientamento
 giurisprudenziale,    riguardante    l'assenza    di    giurisdizione
 dell'a.g.a., ad  una  situazione  di  fatto  paradossale,  costituita
 dall'assenza  di  qualsivoglia rimedio giudiziale contro l'emanazione
 dei  decreti  ministeriali  di  inflizione   del   regime   detentivo
 surrichiamato.  Non  fa  luogo  soffermarsi  oltre il dovuto circa la
 palese  incostituzionalita'  della  predetta  situazione,  la   quale
 confliggerebbe  apertamente con il disposto del primo comma dell'art.
 113  della  Costituzione,  che  prevede  un  necessario  momento   di
 controllo  di  legalita'  dell'operato  della  p.a.  da  parte  della
 giurisdizione ordinaria ovvero  di  quella  amministrativa.  Ritiene,
 pertanto, questo collegio che debba essere affermata la giurisdizione
 dell'a.g.o.  (in  particolare, della magistratura di sorveglianza) in
 relazione ai reclami presentati dai detenuti sottoposti al regime  di
 cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., relativi a doglianze
 inerenti all'applicazione del suddetto regime.
    2)  La  competenza:  delibata  la  sussistenza della giurisdizione
 dell'a.g.o., in particolare, della magistratura di  sorveglianza,  in
 relazione  ai  reclami  presentati  avverso l'applicazione del regime
 detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p.,  rimane
 ancora  aperta  la  questione  inerente alla concreta attribuzione di
 tale giurisdizione tra i vari organi costituenti la  magistratura  di
 sorveglianza:  si  intende  qui  far  riferimento  al  problema della
 competenza: piu' in particolare, occorre stabilire se la competenza a
 risolvere i prefati reclami appartenga al magistrato di  sorveglianza
 in qualita' di organo di giustizia monocratico ovvero al tribunale di
 sorveglianza.
    Vero  e',  al tal proposito, che il magistrato di sorveglianza, in
 qualita'  di  organo  di  giustizia  monocratico,  sovrintende   alla
 organizzazione   degli   istituti   di  prevenzione  e  pena  nonche'
 all'esecuzione della custodia  nei  confronti  degli  imputati,  onde
 assicurare,  in  tale  ultima  ipotesi,  che  vengano  rispettate  le
 formalita' imposte da leggi e  regolamenti.  Il  generico  potere  di
 vigilanza  inteso  all'esercizio del controllo di legalita', cui deve
 essere    assoggettata    anche     l'azione     dell'amministrazione
 penitenziaria,  sembrerebbe,  per  tal  via, rimesso in via esclusiva
 alla componente monocratica della magistratura di sorveglianza, anche
 alla  stregua  della  considerazione  che  il  potere   di   reclamo,
 attribuito  dall'art.  35 dell'o.p. al singolo detenuto, prevede come
 destinatario  delle  doglianze  il  magistrato  di  sorveglianza   in
 qualita'  di organo monocratico di giustizia. Per tal via si dovrebbe
 giungere alla  conclusione  dell'affermazione  della  competenza  del
 prefato   organo  a  decidere  anche  i  reclami  presentati  avverso
 l'applicazione del regime detentivo di cui al secondo comma dell'art.
 41-bis dell'o.p.
    Peraltro, opina questo collegio che  conclusione  preferibile  sia
 quella  che  attribuisce la competenza nella materia de qua agitur al
 tribunale di  sorveglianza.  Si  ponga  mente  alla  circostanza  che
 l'organo  collegiale risulta investito espressamente della competenza
 a decidere dei reclami presentati dai detenuti sottoposti  al  regime
 detentivo  della  sorveglianza  particolare, disciplinato dagli artt.
 14-bis e seguenti della legge 26 luglio 1975, n.  354,  e  successive
 modificazioni.   L'istituto   della  sorveglianza  particolare  venne
 introdotto, nell'ambito del vigente ordinamento penitenziario,  dalla
 legge  10  ottobre  1986,  n. 663, la quale, a seguito di non casuale
 scelta di politica penitenziaria, abrogo' l'art.  90  dell'originaria
 legge  di  riforma  dell'ordinamento penitenziario, disciplinante, in
 maniera invero molto  vaga,  l'istituto  della  "massima  sicurezza".
 Recependo   le  critiche  da  piu'  parti  mosse  al  regime  or  ora
 menzionato,  il  legislatore  del  1986  introdusse   un   intervento
 giurisdizionale,  inteso  a  salvaguardare  il controllo di legalita'
 dell'operato  dell'amministrazione  penitenziaria,   allorche',   per
 particolari  motivi di tutela dalla pericolosita' di alcune categorie
 di detenuti, fosse risultato necessario sottoporre questi  ultimi  da
 un  regime  detentivo  particolarmente  restrittivo ed afflittivo. La
 sorveglianza  particolare  nasceva,  cioe',  nel  chiaro  intento  di
 introdurre  un  regime  di "massima sicurezza" individualizzato ed al
 conclamato  scopo  di  individuare  un  ambito  di   riconduzione   a
 legittimita'  di  eventuali  prassi  amministrative  non  conformi al
 modello legale. L'organo  deputato  ad  esercitare  il  controllo  di
 legalita' veniva individuato nel tribunale di sorveglianza, chiamato,
 ex  art.  14-ter  dell'o.p.,  a decidere i reclami presentati avverso
 l'applicazione  del  regime  di  sorveglianza  particolare.   Orbene,
 ritiene  questo collegio che nella fattispecie concreta sottoposta al
 suo vaglio odierno risulti applicabile in via analogica la disciplina
 dettata dall'art. 14-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354,  e  suc-
 cessive  modifiche  per  il reclamo avverso il regime di sorveglianza
 particolare. Il regime detentivo di cui al  secondo  comma  dell'art.
 41-bis  dell'o.p.,  recentemente  introdotto dall'art. 19 del d.l. 8
 giugno 1992, n. 306,  convertito  con  modificazioni  dalla  legge  7
 agosto  1992,  n.  356,  appare  conformato, come gia' detto in altra
 parte del  presente  provvedimento,  sul  modello  del  regime  della
 "massima  sicurezza",  gia'  disciplinato dall'abrogato art. 90 della
 legge  29  luglio  1975,  n.  354;  tale  ultimo  regime,  a  seguito
 dell'abrogazione  dell'art.  90  dell'o.p.,  operata  dalla  legge n.
 663/1986,   venne,   in   parte,   sostituito   dall'istituto   della
 sorveglianza   particolare:    orbene,  l'esame  dei  presupposti  di
 applicabilita' di  tale  ultimo  regime  detentivo,  prospettati  dal
 disposto  dall'art. 14-bis dell'o.p., induce a ritenere che l'intento
 del legislatore fosse quello di predisporre uno strumento di  rigore,
 attraverso  il quale fronteggiare la pericolosita' di ben determinate
 categorie di detenuti. Gli elementi dai  quali  desumere  la  prefata
 pericolosita'  sono  inerenti,  almeno  nella  prospettazione operata
 dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell'art. 14-bis dell'o.p.,
 all'aspetto intramurario;  occorre,  peraltro,  sottolineare  che  il
 dettato  del  quinto comma dello stesso art. 14-bis dell'o.p. delinea
 un'ipotesi di applicazione del  regime  di  sorveglianza  particolare
 alla   stregua   del   rilievo  di  una  pericolosita'  del  detenuto
 extramuraria, connessa a comportamenti osservati in ambiente  libero,
 esterno  al circuito penitenziario. Cio' induce ad assimilare, quanto
 ai presupposti applicativi, il regime di sorveglianza particolare  al
 regime  detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p.,
 dal quale il primo si differenzierebbe per l'assenza  di  riferimenti
 al  titolo  di  reato in relazione al quale sussiste la situazione di
 privazione della liberta' personale e, sia pure in maniera  marginale
 ed  insignificante,  ai  fini  de  quibus  agitur, per alcuni aspetti
 contenutistici del regime. Quel che  si  vuole  sostenere,  in  altri
 termini, e' che se il regime della sorveglianza particolare nasce con
 l'intento    di    introdurre    limiti    di    legalita'    e    di
 giurisdizionalizzazione nella disciplina della "massima sicurezza"  e
 se  il  regime  detentivo,  recentemente  introdotto dall'art. 19 del
 d.l. 8 giugno 1992, n.  306,  ricalca  gli  stilemi  della  "massima
 sicurezza",   il  sindacato  sulla  legittimita'  dell'operato  della
 amministrazione penitenziaria, una volta riconosciuta la  sussistenza
 della  giurisdizione  dell'a.g.o.,  deve  essere  attribuito a quello
 stesso organo giurisdizionale  demandato  al  controllo  dell'operato
 della  stessa amministrazione penitenziaria relativo all'applicazione
 del regime di  sorveglianza  particolare,  id  est  al  tribunale  di
 sorveglianza, competente, pertanto, a decidere i reclami dei detenuti
 sottoposti  al  regime  di  cui  al  secondo  comma  dell'art. 41-bis
 dell'o.p.
    3)  L'ammissibilita'  del  reclamo:  stante quanto precedentemente
 asserito in ordine alla giurisdizione ed alla competenza,  non  resta
 che  esaminare  la  ricorrenza  dei presupposti di ammissibilita' del
 reclamo  presentato  dal  detenuto  Tripepi  Diego,  con  particolare
 riferimento  alla  tempestivita'  dello  stesso.  Si  muove qui dalla
 considerazione,  gia'  formulata,  circa  l'applicabilita',  in   via
 analogica,  alla  fattispecie  concreta  soggetta al vaglio di questo
 collegio della  disciplina  dettata  dall'art.  14-ter  del  o.p.  in
 materia di reclamabilita' del provvedimento con cui l'amministrazione
 penitenziaria  applica  il  regime  della  sorveglianza  particolare.
 Orbene, il primo comma dell'art. 14-ter dell'o.p.  statuisce  che  il
 detenuto  soggetto  al prefato regime detentivo puo' proporre reclamo
 avverso l'applicazione dello stesso entro e non oltre il termine,  di
 dieci   giorni   dalla  comunicazione  del  provvedimento  definitivo
 dell'amministrazione  penitenziaria.  Stante  tale  statuizione,   si
 dovrebbe  giungere alla conclusione dell'inammissibilita' del reclamo
 presentato dal detenuto Tripepi Diego: si rammenti, infatti,  che  in
 data  21  luglio 1992 la direzione della casa circondariale di Ascoli
 Piceno provvedeva a notificare al detenuto un atto, sottoscritto  dal
 direttore dell'istituto di pena, contenente l'elencazione delle varie
 prescrizioni  consustanzianti  il regime detentivo di rigore e che il
 Tripepi reclamo' contro tale applicazione con  atto  sottoscritto  in
 data  18 dicembre 1992. Occorre, peraltro, sottolineare che l'operato
 dell'amministrazione  penitenziaria  non  appare   connotato,   nella
 fattispecie  concreta  soggetta al vaglio odierno di questo collegio,
 dal pieno rispetto delle regole dettate dalla  vigente  normativa  in
 tema  di  sorveglianza  particolare  (istituto  cui, alla stregua del
 presente ragionare, la nuova disciplina del d.l. n.  306/1992  viene
 assimilata):  l'art.  14-ter dell'o.p., infatti prevede che il dies a
 quo per la  decorrenza  del  termine  di  impugnazione  dell'atto  di
 sottoposizione  al  regime di sorveglianza particolare sia costituito
 dal  giorno  della  comunicazione  al  detenuto   del   provvedimento
 definitivo   dell'a.p.   Il   riferimento   alla   definitivita'  del
 provvedimento deriva dalla possibilita',  espressamente  disciplinata
 dal  quarto  comma  dell'art. 14-bis dell'o.p., che l'amministrazione
 penitenziaria applichi, in casi di urgenza e necessita', il regime di
 sorveglianza particolare senza la previa acquisizione dei  prescritti
 pareri   del  consiglio  di  disciplina  dell'istituto  di  pena  (in
 formazione integrata) e, laddove il detenuto sia imputato,  dell'a.g.
 procedente:  il  provvedimento  siffattamente  emesso e' connotato da
 carattere  di  provvisorieta'  e  deve  essere  integrato,   in   via
 definitiva,   da   successivo   provvedimento,   emesso   a   seguito
 dell'acquisizione dei prescritti pareri. Orbene, il riferimento  alla
 comunicazione  del  provvedimento definitivo, quale dies a quo per la
 decorrenza del termine di impugnazione, sta ad  indicare  in  maniera
 chiara  l'intendimento  legislativo  di  salvaguardare  la conoscenza
 piena, da parte del detenuto, del provvedimento contro cui  si  fanno
 valere    ben   determinate   doglianze;   in   particolare,   appare
 incontrovertibile l'esigenza di garantire la  conoscenza  dei  motivi
 sottesi   all'adozione   di   un   regime  detentivo  particolarmente
 restrittivo, improntato ad un'ottica di mera neutralizzazione, contro
 i quali potra'  essere  fatta  valere  l'opportunita'  del  sindacato
 giurisdizionale:  donde  desumesi  la necessita' che la comunicazione
 del  provvedimento  amministrativo sia piena, al fine di garantire un
 altrettanto pieno, efficace e  razionale  esercizio  del  diritto  di
 difesa,   costituzionalmente   tutelato   (artt.   24   e  113  della
 Costituzione).  Orbene,   nella   fattispecie   concreta   sottoposta
 all'odierno  vaglio  di  questo  tribunale,  appare  chiaramente  non
 rispettata la formalita' imposta dal  primo  comma  dell'art.  14-ter
 dell'o.p.:  si rammenti che al Tripepi non venne notificata copia del
 decreto ministeriale di applicazione del regime  di  cui  al  secondo
 comma  dell'art.  41-bis  dell'o.p.  (emesso in data 20 luglio 1992),
 contenente  anche  la  motivazione  dell'atto,  bensi'  soltanto   un
 estratto  riguardante  il  mero contenuto precettivo (le prescrizioni
 consustanzianti  il  regime  stesso),  oltretutto  sottoscritto   dal
 Direttore  dell'istituto  di  pena  e non dal Ministro guardasigilli:
 tale particolare evidenzia in maniera ancor piu' plastica l'autonomia
 dell'atto comunicato (quasi un mero  ordine  di  servizio,  privo  di
 qualsivoglia motivazione concernente i presuppositi di applicabilita'
 del   regime  detentivo)  rispetto  a  quello  ministeriale,  la  cui
 comunicazione  avrebbe,  invero,   consentito   il   rispetto   delle
 formalita'   di   legge.  Cio'  stante,  non  puo'  farsi  discendere
 dall'inosservanza amministrativa una conseguenza pregiudizievole  per
 il   detenuto:  la  mera  comunicazione  dell'atto  sottoscritto  dal
 Direttore  dell'istituto  di  pena   non   integra   la   fattispecie
 prospettata  dal  primo  comma dell'art. 14-ter dell'o.p., in special
 modo  per  la  violazione  dell'esigenza  di   piena   conoscibilita'
 dell'atto  amministrativo  che  tale  e  tanta incidenza riverbera su
 situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate, si' che
 non risulta ancora inveratosi il dies a quo  per  la  decorrenza  del
 termine  di  impugnazione  del  provvedimento  di cui all'art. 19 del
 d.l. n. 306/1992. Il reclamo stesso appare, pertanto, ammissibile.
    4. La pregiudiziale  di  costituzionalita':  successivamente  alla
 disamina  dei  punti  trattati,  e' d'uopo passare alla preannunziata
 esposizione delle ragioni che inducono questo  collegioa  a  dubitare
 della  costituzionalita'  della  disciplina  di  cui al secondo comma
 dell'art. 41-bis dell'o.p.
    4.1) La non  manifesta  infondatezza:  la  normativa  recentemente
 introdotta   dal   d.l.  8  giugno  1992,  n.  306,  convertito  con
 modificazioni  dalla  legge  7  agosto  1992,  n.   356,   improntata
 all'esigenza   di   predisporre   un   regime   detentivo   di   mera
 neutralizzazione nei  confronti  di  detenuti  che,  in  ragione  del
 particolare titolo delittuoso, che ha dato origine alla situazione di
 privazione  della  liberta' personale, appaiono forniti di un elevato
 grado di pericolosita' sociale,  in  virtu'  di  una  presunzione  di
 collegamenti  con  agguerrite  organizzazioni  criminali, appare, per
 piu' versi confliggente con ben determinati parametri costituzionali.
    4.1.1) Art. 13, secondo comma della Costituzione: il secondo comma
 dell'art. 13 della Carta costituzionale testualmente recita: "Non  e'
 ammessa  forma  alcuna  di  detenzione,  di ispezione o perquisizione
 personale ne qualsiasi altra restrizione della liberta' pesonale,  se
 non  per  atto  motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e
 modi previsti dalla legge". La tutela assegnata dal costituente al cd
 writ of habeas corpus si sostanzia in una riserva di legge ed in  una
 riserva  di  giurisdizione.  Preliminarmente,  occorre intendersi sul
 significato da  attribuire  alla  espressione  "liberta'  personale".
 Peraltro,  la lata formulazione della clausola di chiusura (qualsiasi
 altra  forma  di restrizione della liberta' personale) utilizzata dal
 legislatore  appare  di  portata  tale  da  ricomprendere  anche   le
 situazioni in cui ad un soggetto, il quale gia' si trovi sottoposto a
 privazione  della  liberta'  personale  in esecuzione di un legittimo
 provvedimento   giurisdizionale,   vengano   applicate    restrizioni
 ulteriori rispetto a quelle costituenti l'ordinario regime detentivo:
 tali conclusioni si fondano, altresi', sulle enunciazioni di recente,
 perspicua  dottrina,  secondo  cui il concetto di liberta' personale,
 rilevante alla stregua del disposto dell'art. 13, secondo comma della
 Costituzione, deve essere esteso sino a ricomprendere la liberta' mo-
 rale e la dignita' della persona, si'  che  ogni  restrizione,  anche
 fosse   semplicemente   obbligatoria,   ma   in   grado  di  incidere
 negativamente sulla liberta' morale ovvero sulla  dignita'  personale
 del  singolo  (od  anche  soltanto  sulla  liberta' di determinazione
 psichica) integra la fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 13
 della Costituzione. Non e' chi non veda come  il  concreto  contenuto
 precettivo  del  regime  detentivo  di particolare rigore, introdotto
 dall'art. 19  del  d.l.  8  giugno  1992,  n.  306,  convertito  con
 modificazioni  dalla  legge  7  agosto  1992,  n.  356,  integri  una
 fattispecie di restrizione della  liberta'  personale  del  soggetto,
 susumibile  nell'ambito  della  normativa  di  cui  al  secondo comma
 dell'art. 13 della Costituzione il detenuto  sottoposto  al  suddetto
 regime  detentivo vede ulteriormente compressi i propri spazi residui
 di liberta' personale (permanenza all'aria  aperta,  possibilita'  di
 esperire  attivita'  lavorativa  artigianale  per conto proprio e per
 conto terzi, acquisto di generi al cosiddetto "sopravvitto", colloqui
 con  i  familiari,  sottoposizione  a  visto   di   controllo   della
 corrispondenza,  possibilita'  di  ricezione  di pacchi dall'esterno,
 ecc.) rispetto a cio' che costituisce l'ordinario  regime  detentivo.
 Tali  restrizioni, di cui, sia chiaro, non si contesta la validita' e
 l'efficacia agli scopi conclamati  di  contrasto  della  criminalita'
 organizzata,  vengono  applicate  da un atto della p.a. (nella specie
 dell'amministrazione penitenziaria) senza che sia previsto neanche un
 successivo   intervento,   in   via   di   ratifica,   dell'autorita'
 giudiziaria:  cio'  appare  in evidente contrasto con il disposto del
 richiamato secondo comma del'art. 13 della Costituzione.
   4.1.3) Art.  27  terzo  comma  della  Costituzione:  la  disciplina
 dettata dal secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., inoltre, appare
 confliggere  anche  con  il  principio  di  rieducazione  della  pena
 detentiva, di cui al terzo  comma  dell'art.  27  della  Costituzione
 laddove,  infatti,  la  rieducazione  vada  correttamente intesa come
 finalizzazione dell'esecuzione penale al raggiungimento del traguardo
 del reinserimento sociale del reo,  non  e'  chi  non  veda  come  il
 trattamento  imposto  dall'applicazione  del  regime  "differenziato"
 surrichiamato  appare   in   netto   contrasto   con   il   parametro
 costituzionale  poc'anzi  menzionato:  la  sottoposizione  di  alcuni
 detenuti, selezionati quasi semplicemente  alla  stregua  del  titolo
 delittuoso,  costituente  la  fonte  della  privazione della liberta'
 personale, ad un regime indiscrimanatamente  sanzionatorio,  ispirato
 ad  un'ottica di mera neutralizzazione viola palesemente il principio
 di  individualizzazione  dell'esecuzione  penale.   In   particolare,
 occorre  precisare che il surrichiamato principio vale senza dubbio a
 fondare l'introduzione di regimi detentivi di rigore nei confronti di
 soggetti particolarmente pericolosi in quanto riottosi ad  ogni  tipo
 di   trattamento   rieducativo:  quel  che  si  contesta  e'  che  la
 formulazione della norma in disamina (secondo comma dell'art.  41-bis
 dell'o.p.),  disdegnando  ogni richiamo ai pregressi penitenziari del
 detenuto ed assegnando un rilievo pressocche'  assorbente  al  titolo
 delittuoso   costituente   fonte   della  privazione  della  liberta'
 personale, esprima potenzialita' applicative tali da porre nel  nulla
 un  eventuale  iter  rieducativo  gia'  positivamente  intrapreso dal
 soggetto sottoposto al regime de quo agitur. La discrimazione operata
 attraverso la  surrichiamata  normativa  appare,  pertanto,  soltanto
 apparentemente   in   linea   con   i   dettami   del   principio  di
 individualizzazione dell'esecuzione penale  ed,  in  realta'  esprime
 potenzialita'   di   indiscriminato   appiattimento  di  parte  della
 popolazione detenuta. La violazione  del  principio  di  rieducazione
 dettato  dal  terzo  comma  dell'art.  27 della Costituzione viene in
 rilievo  anche  per  altro  verso,  laddove  si  consideri   che   la
 sospensione delle regole di trattamento e degli istituti disciplinati
 dalla  legge di riforma dell'ordinamento penitenziario per un periodo
 di tempo indubbiamente rilevante (tre anni decorrenti dalla  data  di
 entrata  in  vigore della legge di conversione del d.l. n. 306/1992;
 v. art. 29 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306) implica la  rinunzia,  in
 un'ottica,  gia'  richiamata,  di  mera neutralizzazione del detenuto
 sottoposto  al  regime  de  quo  agitur,  a  qualsivoglia  intervento
 statuale  inteso  a  rimuovere  le eventuali cause del disadattamento
 sociale, fonte della devianza,  nel  che,  propriamente  consiste  il
 trattamento   rieducativo,  costituente,  secondo  l'ormai  risalente
 insegnamento della suprema Corte,  un  vero  e  proprio  diritto  del
 condannato  (v.  Cass., sezione prima penale, 1½ luglio 1981, Varone,
 in Rass. penit. e crimin. 1981, pag. 524). Il  disposto  del  secondo
 comma dell'art. 41-bis dell'o.p. appare, pertanto, in contrasto anche
 con il dettato del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione.
    4.2)  La  rilevanza: in ordine al punto in disamina, inerente alla
 rilevanza delle prospettate questioni di legittimita' costituzionale,
 non appare necessario soffermarsi oltre modo: il giudizio  instaurato
 dinanzi  a  questo  collegio  e'  inteso al vaglio della legittimita'
 dell'operato dell'amministrazione penitenziaria nella  sottoposizione
 del  detenuto  Tripepi  al  regime detentivo disciplinato dal secondo
 comma dell'art. 41-bis dell'o.p., tale normativa costituisce la fonte
 del decreto del Ministro di grazia e giustizia adottato  in  data  20
 luglio  1992,  si' che il giudizio di legittimita' dell'operato della
 p.a. comporta necessariamente  una  disamina  dell'atto  rispetto  al
 summenzionato parametro legislativo. Cio' detto appare chiaramente la
 rilevanza  delle prospettate questioni di legittimita' costituzionale
 dell'art. 41-bis dell'o.p..