IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA In merito al reclamo avverso l'applicazione del regime detentivo, di cui all'art. 41-bis, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, presentato dal condannato Tripepi Diego, nato il 12 febbraio 1958, a Seminara (Reggio Calabria), domiciliato in Gerenzano (Varese), via Manzoni n. 24, attualmente ristretto presso la sezione a maggior indice di vigilanza cautelativa della casa circondariale di Ascoli Piceno, in espiazione della pena detentiva di anni sei e mesi otto di reclusione, siccome comminata dalla sentenza pronunziata in data 18 giugno 1987 dalla settima sezione penale del tribunale di Milano, in relazione a fattispecie di concorso in tentativo di estorsione aggravata (f.p.: 8 luglio 1995); A scioglimento della riserva espressa nell'odierna udienza; Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale; Sentiti il P. G. ed il difensore di ufficio dell'interessato, che concludevano come in atti, osserva in FATTO E DIRITTO Arrestato in data 7 febbraio 1991, Tripepi Diego, meglio qualificato in epigrafe, gia' condannato alla pena detentiva di anni sei e mesi otto di reclusione, comminate in relazione a fattispecie di concorso in tentativo di estorsione aggravata, dalla settima sezione penale del tribunale di Milano con sentenza pubblicata in data 18 giugno 1987 (v. estratto della cartella biografica, contenente la posizione giuridica, in atti), usufruiva, in data 13 maggio 1992, di una riduzione di pena per liberazione anticipata di giorni novanta, pari a due semestri, (dal 7 febbraio 1991 al 7 febbraio 1992) utilmente espiati, concessa in data 13 maggio 1992 dal tribunale di sorveglianza di Milano (v. estratto della cartella biografica, contenente la posizione giuridica, in atti). In data 20 luglio 1992 il Ministro guardasigilli emanava apposito decreto, con cui, alla stregua della disciplina introdotta dall'art. 19 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, e successivamente convertito con legge 7 agosto 1992, n. 356, applicava al prefato Tripepi il particolare re- gime restrittivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., interpolato dalla surrichiamata normativa nell'ambito del corpus dell'originaria legge di riforma dell'ordinamento penitenziario (v. in atti). Assegnato alla sezione a maggior indice di vigilanza cautelativa della casa circondariale in Ascoli Piceno, il Tripepi si vedeva notificare, in data 21 luglio 1992, apposito atto, sottoscritto dal direttore del predetto istituto di pena, contenente le prescrizioni consustanzianti il regime detentivo di cui all'art. 41-bis, secondo comma, dell'o.p. (v. in atti). In data 18 dicembre 1992 il detenuto sottoscriveva atto di reclamo avverso l'applicazione del regime detentivo predetto: tale doglianza perveniva in data 21 dicembre 1992 presso l'intestato tribunale di sorveglianza. Il presidente di questo collegio provvedeva a fissare l'odierna udienza per la discussione, con le forme previste dall'art. 14-ter dell'o.p., sul reclamo presentato dal Tripepi: in esito all'esposizione compiuta dal giudice relatore, p. g. e difensore d'ufficio del detenuto concludevano come da separato verbale. Il tribunale si riservava. Sciogliendo la summenzionata riserva, opina questo collegio che la questione agitata dal Tripepi non possa, allo stato, essere definita nel merito, in quanto appare pregiudiziale sollevare eccezione di illegittimita' costituzionale del disposto del secondo comma dell'art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. Tale normativa risulta essere introdotta dall'art. 19 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e, testualmente, recita: "Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al primo comma dell'art. 4- bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza". Orbene, il peculiare regime detentivo, cui da luogo l'applicazione del disposto normativo or ora richiamato, modellato sull'archetipo del regime cd. di "massima sicurezza", di cui all'abrogato art. 90 della legge 26 luglio 1975, n. 354, risulta essere stato imposto dal detenuto Tripepi Diego da apposito decreto del Ministro di grazia e giustizia, reso in data 20 luglio 1992 (v. in atti). Il Tripepi reclama avverso l'applicazione di tale regime carcerario, contraddistinto da modalita' esecutive improntate a particolare afflizione: preliminarmente alla disamina della questione agitata dal condannato si pone la risoluzione di problemi di giurisdizione e di competenza. 1) La giurisdizione: eccepisce l'amministrazione penitenziaria, nell'ambito di apposita memoria inviata all'intestato tribunale di sorveglianza (fono riservato n. 50412/43638/434466, in atti), che, stante l'assenza di apposita previsione legislativa, la quale introduca, nei confronti dell'atto ministeriale di applicazione del regime detentivo di cui all'art. 41-bis, secondo comma, dell'o.p., un momento di controllo giurisdizionale affidato alla magistratura di sorveglianza (cosi' come, viceversa, succede per il regime di sorveglianza particolare, disciplinato dagli artt. 14-bis e segg. della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modifiche), si e' in presenza di un vero e proprio difetto di giurisdizione dell'a.g.o., nella fattispecie della magistratura di sorveglianza, e che l'unico ambito di tutela, riservato al detenuto colpito dall'applicazione del surrichiamato regime detentivo, e' costituito dalla giurisdizione dell'autorita' giudiziaria amministrativa (t.a.r. e Consiglio di Stato). Orbene, ritiene questo collegio che la tesi sostenuta dall'amministrazione penitenziaria nei termini or ora esposti, non possa trovare accoglimento. Si rammenti, a tal proposito, che, nella vigenza dell'art. 90 dell'originaria legge 26 luglio 1975, n. 354, il quale disciplinava analogo potere ministeriale di sospensione delle regole di trattamento rieducativo e, piu' genericamente, penitenziario, sul quale appare, peraltro, ricalcata l'attuale potesta' ministeriale, l'a.g.a. si era gia' espressa nel senso dell'assenza di proprio potere giurisdizionale a decidere i reclami proposti dai detenuti avverso gli atti amministrativi di applicazione del regime detentivo di massima sicurezza (v. t.a.r. Lazio, sezione prima, sentenza 13 settembre 1984, n. 771, pres. Anelli, est. Ferrari, Rivellini ed altri - avv. Baccioli - c. Ministero grazia e giustizia - avv. dello Stato Siconolfi -, in Foro it., 1986, III, c. 87 e segg.). Pienamente condivisibili appaiono le motivazioni gia' espresse dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, secondo cui " .. agli effetti di attuare il riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, cio' che conta non e' la qualificazione giuridica che l'istante conferisce alla posizione soggettiva di cui chiede la tutela, ma la reale consistenza di detta posizione, cosi' come risulta disciplinata dalle fonti di normazione ..". Orbene, il decreto ministeriale con cui si provvede all'applicazione del regime detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p. appronta particolari prescrizioni, le quali consistono nella sospensione di ben determinate regole trattamentali (esclusione dalla partecipazione alle commissioni di detenuti per il controllo del vitto e per le attivita' ricreative e sportive, limitazione del periodo della giornata da trascorrere all'aria, limitazione dei generi ricevibili dall'esterno mediante pacchi, sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo del direttore dell'istituto di pena, ecc.): tali restrizioni coincidono in maniera pressoche' totale con quelle, a suo tempo, disposte dal Ministro di grazia e giustizia in applicazione del regime predisposto dall'art. 90 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (successivamente abrogato dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663) (si vedano, a tal proposito, gli allegati alla nota documenti per una riflessione sugli istituti di "massima sicurezza", redatta da G. La Grega e pubblicata in Foro it., 1983, II, c. 473 e segg.). Orbene, in relazione alle limitazioni imposte in virtu' della disciplina di cui al prefato art. 90 della legge 26 luglio 1975, n. 354 l'a.g.a. aveva, nella perspicua pronunzia sopra richiamata, individuato l'incidenza, in via immediata e diretta, del provvedimento amministrativo di applicazione del re- gime della "massima sicurezza" su situazioni giuridiche soggettive qualificabili come diritti di liberta' costituzionalmente tutelati. I detenuti, cioe', sono titolari di situazioni giuridiche soggettive, garantite da appositi parametri costituzionali quali il secondo comma dell'art. 13 della Costituzione ed il terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, le quali appaiono, in virtu' della loro inerenza alla persona umana e della sussistenza di apposita tutela, anzitutto nei confronti della pubblica amministrazione, qualificabili come diritti soggettivi, non degradabili ad interessi legittimi (v. t.a.r. Lazio, sentenza 13 settembre 1984, n. 771, gia' citata). In relazione a tali situazioni giuridiche soggettive appaiono possibili le sole restrizioni adottabili nelle forme e con il rispetto delle garanzie volute dalla legge; mai, comunque, appare ipotizzabile una degradazione delle stesse al rango di interessi legittimi, non disponendo la p.a. di poteri ablatori nei confronti delle surrichiamate posizioni giuridiche. Alla stregua delle prefate considerazioni, il t.a.r. Lazio giungeva alla conseguente conclusione, senz'ombra di dubbio condivisibile, circa l'assenza di giurisdizione della a.g.a., nella fattispecie d'organo tribunale amministrativo regionale (giudice degli interessi legittimi), in relazione alla denunziata violazione, da parte della p.a., di situazioni giuridiche soggettive quali quelle, la cui lesione veniva lamentata dai ricorrenti detenuti; addirittura, si affermava espressamente, nella surrichiamata pronunzia, una sorta di giurisdizione esclusiva della magistratura di sorveglianza a decidere questioni analoghe ovvero identiche a quella agitata dai ricorrenti (v. t.a.r. Lazio, sentenza 13 settembre 1984, gia' citata, al punto n. 3). Quanto precede giustifica la conclusione circa l'infondatezza dell'eccezione di difetto di giurisdizione, sollevata dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria nella memoria sopra menzionata: altrimenti opinando, sulla base del mero rilievo dell'assenza di esplicita previsione legislativa circa l'attribuzione alla magistratura di sorveglianza del potere di risoluzione di questioni inerenti al reclamo avverso l'applicazione del regime detentivo, di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., si giungerebbe, anche alla stegua del cennato orientamento giurisprudenziale, riguardante l'assenza di giurisdizione dell'a.g.a., ad una situazione di fatto paradossale, costituita dall'assenza di qualsivoglia rimedio giudiziale contro l'emanazione dei decreti ministeriali di inflizione del regime detentivo surrichiamato. Non fa luogo soffermarsi oltre il dovuto circa la palese incostituzionalita' della predetta situazione, la quale confliggerebbe apertamente con il disposto del primo comma dell'art. 113 della Costituzione, che prevede un necessario momento di controllo di legalita' dell'operato della p.a. da parte della giurisdizione ordinaria ovvero di quella amministrativa. Ritiene, pertanto, questo collegio che debba essere affermata la giurisdizione dell'a.g.o. (in particolare, della magistratura di sorveglianza) in relazione ai reclami presentati dai detenuti sottoposti al regime di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., relativi a doglianze inerenti all'applicazione del suddetto regime. 2) La competenza: delibata la sussistenza della giurisdizione dell'a.g.o., in particolare, della magistratura di sorveglianza, in relazione ai reclami presentati avverso l'applicazione del regime detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., rimane ancora aperta la questione inerente alla concreta attribuzione di tale giurisdizione tra i vari organi costituenti la magistratura di sorveglianza: si intende qui far riferimento al problema della competenza: piu' in particolare, occorre stabilire se la competenza a risolvere i prefati reclami appartenga al magistrato di sorveglianza in qualita' di organo di giustizia monocratico ovvero al tribunale di sorveglianza. Vero e', al tal proposito, che il magistrato di sorveglianza, in qualita' di organo di giustizia monocratico, sovrintende alla organizzazione degli istituti di prevenzione e pena nonche' all'esecuzione della custodia nei confronti degli imputati, onde assicurare, in tale ultima ipotesi, che vengano rispettate le formalita' imposte da leggi e regolamenti. Il generico potere di vigilanza inteso all'esercizio del controllo di legalita', cui deve essere assoggettata anche l'azione dell'amministrazione penitenziaria, sembrerebbe, per tal via, rimesso in via esclusiva alla componente monocratica della magistratura di sorveglianza, anche alla stregua della considerazione che il potere di reclamo, attribuito dall'art. 35 dell'o.p. al singolo detenuto, prevede come destinatario delle doglianze il magistrato di sorveglianza in qualita' di organo monocratico di giustizia. Per tal via si dovrebbe giungere alla conclusione dell'affermazione della competenza del prefato organo a decidere anche i reclami presentati avverso l'applicazione del regime detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p. Peraltro, opina questo collegio che conclusione preferibile sia quella che attribuisce la competenza nella materia de qua agitur al tribunale di sorveglianza. Si ponga mente alla circostanza che l'organo collegiale risulta investito espressamente della competenza a decidere dei reclami presentati dai detenuti sottoposti al regime detentivo della sorveglianza particolare, disciplinato dagli artt. 14-bis e seguenti della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. L'istituto della sorveglianza particolare venne introdotto, nell'ambito del vigente ordinamento penitenziario, dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, la quale, a seguito di non casuale scelta di politica penitenziaria, abrogo' l'art. 90 dell'originaria legge di riforma dell'ordinamento penitenziario, disciplinante, in maniera invero molto vaga, l'istituto della "massima sicurezza". Recependo le critiche da piu' parti mosse al regime or ora menzionato, il legislatore del 1986 introdusse un intervento giurisdizionale, inteso a salvaguardare il controllo di legalita' dell'operato dell'amministrazione penitenziaria, allorche', per particolari motivi di tutela dalla pericolosita' di alcune categorie di detenuti, fosse risultato necessario sottoporre questi ultimi da un regime detentivo particolarmente restrittivo ed afflittivo. La sorveglianza particolare nasceva, cioe', nel chiaro intento di introdurre un regime di "massima sicurezza" individualizzato ed al conclamato scopo di individuare un ambito di riconduzione a legittimita' di eventuali prassi amministrative non conformi al modello legale. L'organo deputato ad esercitare il controllo di legalita' veniva individuato nel tribunale di sorveglianza, chiamato, ex art. 14-ter dell'o.p., a decidere i reclami presentati avverso l'applicazione del regime di sorveglianza particolare. Orbene, ritiene questo collegio che nella fattispecie concreta sottoposta al suo vaglio odierno risulti applicabile in via analogica la disciplina dettata dall'art. 14-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e suc- cessive modifiche per il reclamo avverso il regime di sorveglianza particolare. Il regime detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., recentemente introdotto dall'art. 19 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, appare conformato, come gia' detto in altra parte del presente provvedimento, sul modello del regime della "massima sicurezza", gia' disciplinato dall'abrogato art. 90 della legge 29 luglio 1975, n. 354; tale ultimo regime, a seguito dell'abrogazione dell'art. 90 dell'o.p., operata dalla legge n. 663/1986, venne, in parte, sostituito dall'istituto della sorveglianza particolare: orbene, l'esame dei presupposti di applicabilita' di tale ultimo regime detentivo, prospettati dal disposto dall'art. 14-bis dell'o.p., induce a ritenere che l'intento del legislatore fosse quello di predisporre uno strumento di rigore, attraverso il quale fronteggiare la pericolosita' di ben determinate categorie di detenuti. Gli elementi dai quali desumere la prefata pericolosita' sono inerenti, almeno nella prospettazione operata dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell'art. 14-bis dell'o.p., all'aspetto intramurario; occorre, peraltro, sottolineare che il dettato del quinto comma dello stesso art. 14-bis dell'o.p. delinea un'ipotesi di applicazione del regime di sorveglianza particolare alla stregua del rilievo di una pericolosita' del detenuto extramuraria, connessa a comportamenti osservati in ambiente libero, esterno al circuito penitenziario. Cio' induce ad assimilare, quanto ai presupposti applicativi, il regime di sorveglianza particolare al regime detentivo di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., dal quale il primo si differenzierebbe per l'assenza di riferimenti al titolo di reato in relazione al quale sussiste la situazione di privazione della liberta' personale e, sia pure in maniera marginale ed insignificante, ai fini de quibus agitur, per alcuni aspetti contenutistici del regime. Quel che si vuole sostenere, in altri termini, e' che se il regime della sorveglianza particolare nasce con l'intento di introdurre limiti di legalita' e di giurisdizionalizzazione nella disciplina della "massima sicurezza" e se il regime detentivo, recentemente introdotto dall'art. 19 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, ricalca gli stilemi della "massima sicurezza", il sindacato sulla legittimita' dell'operato della amministrazione penitenziaria, una volta riconosciuta la sussistenza della giurisdizione dell'a.g.o., deve essere attribuito a quello stesso organo giurisdizionale demandato al controllo dell'operato della stessa amministrazione penitenziaria relativo all'applicazione del regime di sorveglianza particolare, id est al tribunale di sorveglianza, competente, pertanto, a decidere i reclami dei detenuti sottoposti al regime di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p. 3) L'ammissibilita' del reclamo: stante quanto precedentemente asserito in ordine alla giurisdizione ed alla competenza, non resta che esaminare la ricorrenza dei presupposti di ammissibilita' del reclamo presentato dal detenuto Tripepi Diego, con particolare riferimento alla tempestivita' dello stesso. Si muove qui dalla considerazione, gia' formulata, circa l'applicabilita', in via analogica, alla fattispecie concreta soggetta al vaglio di questo collegio della disciplina dettata dall'art. 14-ter del o.p. in materia di reclamabilita' del provvedimento con cui l'amministrazione penitenziaria applica il regime della sorveglianza particolare. Orbene, il primo comma dell'art. 14-ter dell'o.p. statuisce che il detenuto soggetto al prefato regime detentivo puo' proporre reclamo avverso l'applicazione dello stesso entro e non oltre il termine, di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento definitivo dell'amministrazione penitenziaria. Stante tale statuizione, si dovrebbe giungere alla conclusione dell'inammissibilita' del reclamo presentato dal detenuto Tripepi Diego: si rammenti, infatti, che in data 21 luglio 1992 la direzione della casa circondariale di Ascoli Piceno provvedeva a notificare al detenuto un atto, sottoscritto dal direttore dell'istituto di pena, contenente l'elencazione delle varie prescrizioni consustanzianti il regime detentivo di rigore e che il Tripepi reclamo' contro tale applicazione con atto sottoscritto in data 18 dicembre 1992. Occorre, peraltro, sottolineare che l'operato dell'amministrazione penitenziaria non appare connotato, nella fattispecie concreta soggetta al vaglio odierno di questo collegio, dal pieno rispetto delle regole dettate dalla vigente normativa in tema di sorveglianza particolare (istituto cui, alla stregua del presente ragionare, la nuova disciplina del d.l. n. 306/1992 viene assimilata): l'art. 14-ter dell'o.p., infatti prevede che il dies a quo per la decorrenza del termine di impugnazione dell'atto di sottoposizione al regime di sorveglianza particolare sia costituito dal giorno della comunicazione al detenuto del provvedimento definitivo dell'a.p. Il riferimento alla definitivita' del provvedimento deriva dalla possibilita', espressamente disciplinata dal quarto comma dell'art. 14-bis dell'o.p., che l'amministrazione penitenziaria applichi, in casi di urgenza e necessita', il regime di sorveglianza particolare senza la previa acquisizione dei prescritti pareri del consiglio di disciplina dell'istituto di pena (in formazione integrata) e, laddove il detenuto sia imputato, dell'a.g. procedente: il provvedimento siffattamente emesso e' connotato da carattere di provvisorieta' e deve essere integrato, in via definitiva, da successivo provvedimento, emesso a seguito dell'acquisizione dei prescritti pareri. Orbene, il riferimento alla comunicazione del provvedimento definitivo, quale dies a quo per la decorrenza del termine di impugnazione, sta ad indicare in maniera chiara l'intendimento legislativo di salvaguardare la conoscenza piena, da parte del detenuto, del provvedimento contro cui si fanno valere ben determinate doglianze; in particolare, appare incontrovertibile l'esigenza di garantire la conoscenza dei motivi sottesi all'adozione di un regime detentivo particolarmente restrittivo, improntato ad un'ottica di mera neutralizzazione, contro i quali potra' essere fatta valere l'opportunita' del sindacato giurisdizionale: donde desumesi la necessita' che la comunicazione del provvedimento amministrativo sia piena, al fine di garantire un altrettanto pieno, efficace e razionale esercizio del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato (artt. 24 e 113 della Costituzione). Orbene, nella fattispecie concreta sottoposta all'odierno vaglio di questo tribunale, appare chiaramente non rispettata la formalita' imposta dal primo comma dell'art. 14-ter dell'o.p.: si rammenti che al Tripepi non venne notificata copia del decreto ministeriale di applicazione del regime di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p. (emesso in data 20 luglio 1992), contenente anche la motivazione dell'atto, bensi' soltanto un estratto riguardante il mero contenuto precettivo (le prescrizioni consustanzianti il regime stesso), oltretutto sottoscritto dal Direttore dell'istituto di pena e non dal Ministro guardasigilli: tale particolare evidenzia in maniera ancor piu' plastica l'autonomia dell'atto comunicato (quasi un mero ordine di servizio, privo di qualsivoglia motivazione concernente i presuppositi di applicabilita' del regime detentivo) rispetto a quello ministeriale, la cui comunicazione avrebbe, invero, consentito il rispetto delle formalita' di legge. Cio' stante, non puo' farsi discendere dall'inosservanza amministrativa una conseguenza pregiudizievole per il detenuto: la mera comunicazione dell'atto sottoscritto dal Direttore dell'istituto di pena non integra la fattispecie prospettata dal primo comma dell'art. 14-ter dell'o.p., in special modo per la violazione dell'esigenza di piena conoscibilita' dell'atto amministrativo che tale e tanta incidenza riverbera su situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate, si' che non risulta ancora inveratosi il dies a quo per la decorrenza del termine di impugnazione del provvedimento di cui all'art. 19 del d.l. n. 306/1992. Il reclamo stesso appare, pertanto, ammissibile. 4. La pregiudiziale di costituzionalita': successivamente alla disamina dei punti trattati, e' d'uopo passare alla preannunziata esposizione delle ragioni che inducono questo collegioa a dubitare della costituzionalita' della disciplina di cui al secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p. 4.1) La non manifesta infondatezza: la normativa recentemente introdotta dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, improntata all'esigenza di predisporre un regime detentivo di mera neutralizzazione nei confronti di detenuti che, in ragione del particolare titolo delittuoso, che ha dato origine alla situazione di privazione della liberta' personale, appaiono forniti di un elevato grado di pericolosita' sociale, in virtu' di una presunzione di collegamenti con agguerrite organizzazioni criminali, appare, per piu' versi confliggente con ben determinati parametri costituzionali. 4.1.1) Art. 13, secondo comma della Costituzione: il secondo comma dell'art. 13 della Carta costituzionale testualmente recita: "Non e' ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale ne qualsiasi altra restrizione della liberta' pesonale, se non per atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". La tutela assegnata dal costituente al cd writ of habeas corpus si sostanzia in una riserva di legge ed in una riserva di giurisdizione. Preliminarmente, occorre intendersi sul significato da attribuire alla espressione "liberta' personale". Peraltro, la lata formulazione della clausola di chiusura (qualsiasi altra forma di restrizione della liberta' personale) utilizzata dal legislatore appare di portata tale da ricomprendere anche le situazioni in cui ad un soggetto, il quale gia' si trovi sottoposto a privazione della liberta' personale in esecuzione di un legittimo provvedimento giurisdizionale, vengano applicate restrizioni ulteriori rispetto a quelle costituenti l'ordinario regime detentivo: tali conclusioni si fondano, altresi', sulle enunciazioni di recente, perspicua dottrina, secondo cui il concetto di liberta' personale, rilevante alla stregua del disposto dell'art. 13, secondo comma della Costituzione, deve essere esteso sino a ricomprendere la liberta' mo- rale e la dignita' della persona, si' che ogni restrizione, anche fosse semplicemente obbligatoria, ma in grado di incidere negativamente sulla liberta' morale ovvero sulla dignita' personale del singolo (od anche soltanto sulla liberta' di determinazione psichica) integra la fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 13 della Costituzione. Non e' chi non veda come il concreto contenuto precettivo del regime detentivo di particolare rigore, introdotto dall'art. 19 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, integri una fattispecie di restrizione della liberta' personale del soggetto, susumibile nell'ambito della normativa di cui al secondo comma dell'art. 13 della Costituzione il detenuto sottoposto al suddetto regime detentivo vede ulteriormente compressi i propri spazi residui di liberta' personale (permanenza all'aria aperta, possibilita' di esperire attivita' lavorativa artigianale per conto proprio e per conto terzi, acquisto di generi al cosiddetto "sopravvitto", colloqui con i familiari, sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza, possibilita' di ricezione di pacchi dall'esterno, ecc.) rispetto a cio' che costituisce l'ordinario regime detentivo. Tali restrizioni, di cui, sia chiaro, non si contesta la validita' e l'efficacia agli scopi conclamati di contrasto della criminalita' organizzata, vengono applicate da un atto della p.a. (nella specie dell'amministrazione penitenziaria) senza che sia previsto neanche un successivo intervento, in via di ratifica, dell'autorita' giudiziaria: cio' appare in evidente contrasto con il disposto del richiamato secondo comma del'art. 13 della Costituzione. 4.1.3) Art. 27 terzo comma della Costituzione: la disciplina dettata dal secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., inoltre, appare confliggere anche con il principio di rieducazione della pena detentiva, di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione laddove, infatti, la rieducazione vada correttamente intesa come finalizzazione dell'esecuzione penale al raggiungimento del traguardo del reinserimento sociale del reo, non e' chi non veda come il trattamento imposto dall'applicazione del regime "differenziato" surrichiamato appare in netto contrasto con il parametro costituzionale poc'anzi menzionato: la sottoposizione di alcuni detenuti, selezionati quasi semplicemente alla stregua del titolo delittuoso, costituente la fonte della privazione della liberta' personale, ad un regime indiscrimanatamente sanzionatorio, ispirato ad un'ottica di mera neutralizzazione viola palesemente il principio di individualizzazione dell'esecuzione penale. In particolare, occorre precisare che il surrichiamato principio vale senza dubbio a fondare l'introduzione di regimi detentivi di rigore nei confronti di soggetti particolarmente pericolosi in quanto riottosi ad ogni tipo di trattamento rieducativo: quel che si contesta e' che la formulazione della norma in disamina (secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p.), disdegnando ogni richiamo ai pregressi penitenziari del detenuto ed assegnando un rilievo pressocche' assorbente al titolo delittuoso costituente fonte della privazione della liberta' personale, esprima potenzialita' applicative tali da porre nel nulla un eventuale iter rieducativo gia' positivamente intrapreso dal soggetto sottoposto al regime de quo agitur. La discrimazione operata attraverso la surrichiamata normativa appare, pertanto, soltanto apparentemente in linea con i dettami del principio di individualizzazione dell'esecuzione penale ed, in realta' esprime potenzialita' di indiscriminato appiattimento di parte della popolazione detenuta. La violazione del principio di rieducazione dettato dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione viene in rilievo anche per altro verso, laddove si consideri che la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti disciplinati dalla legge di riforma dell'ordinamento penitenziario per un periodo di tempo indubbiamente rilevante (tre anni decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 306/1992; v. art. 29 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306) implica la rinunzia, in un'ottica, gia' richiamata, di mera neutralizzazione del detenuto sottoposto al regime de quo agitur, a qualsivoglia intervento statuale inteso a rimuovere le eventuali cause del disadattamento sociale, fonte della devianza, nel che, propriamente consiste il trattamento rieducativo, costituente, secondo l'ormai risalente insegnamento della suprema Corte, un vero e proprio diritto del condannato (v. Cass., sezione prima penale, 1½ luglio 1981, Varone, in Rass. penit. e crimin. 1981, pag. 524). Il disposto del secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p. appare, pertanto, in contrasto anche con il dettato del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione. 4.2) La rilevanza: in ordine al punto in disamina, inerente alla rilevanza delle prospettate questioni di legittimita' costituzionale, non appare necessario soffermarsi oltre modo: il giudizio instaurato dinanzi a questo collegio e' inteso al vaglio della legittimita' dell'operato dell'amministrazione penitenziaria nella sottoposizione del detenuto Tripepi al regime detentivo disciplinato dal secondo comma dell'art. 41-bis dell'o.p., tale normativa costituisce la fonte del decreto del Ministro di grazia e giustizia adottato in data 20 luglio 1992, si' che il giudizio di legittimita' dell'operato della p.a. comporta necessariamente una disamina dell'atto rispetto al summenzionato parametro legislativo. Cio' detto appare chiaramente la rilevanza delle prospettate questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis dell'o.p..